La banda Apollinaire di Renzo Paris racconta, attraverso la vita del grande poeta Guillaume Apollinaire, quella di tutta una generazione di artisti, da Pablo Picasso a Max Jacob fino ai giovanissimi Breton e Cocteau, che rivoluzionarono l’arte del Novecento.
Alla ricerca della poesia perduta, Paris ci fa rivivere le emozioni dell’infanzia romana di Guillaume, di quando, a spasso con la madre polacca, passeggiava per le vie del centro, durante i sanguinosi Carnevali e le dolci Befane. La vita avventurosa continua con il trasferimento a Monaco della madre, amante di un diverso gioco da quello letterario del figlio. È qui che diventa un lettore onnivoro, che spazia da testi di magia medievale, con i “suoi” Merlino, a quelli eresiarchi, fino al divino marchese de Sade, che gli costò l’espulsione dalla scuola, alla traduzione della Fiammetta di Boccaccio, che gli ispirò il suo primo romanzo dal titolo malizioso Orindoculo, di cui però non abbiamo traccia alcuna. Sempre in bolletta e al limite dell’illegalità approda infine nella Parigi della Belle Époque e diventa poeta recitando con successo in pubblico i suoi versi, nelle affollate serate della rivista «La Plume» che glieli pubblicò. Nell’eterna ricerca di un lavoro, diventa giornalista e frequenta il Bateau Lavoir, lo squatt dove Picasso e i suoi amici si riunivano, parlando di arte ma anche bevendo e drogandosi con l’oppio e la mescalina. Nel frattempo Guillaume si innamora dell’enigmatica governante inglese Annie Playden, che gli ispira versi immortali, poi della fredda pittrice fauve Marie Laurencin, presentatagli da Picasso, consolidando la leggenda del “male amato”, che lo perseguiterà anche con la nobildonna cocainomane, destinataria di tantissime lettere erotiche e di versi infiammati, chiamata “Lou”, fino alla maghrebina Madeleine Pagès che voleva sposare e a Jacqueline Kolb, che invece sposò, poco prima di morire, nel 1918, all’età di trentotto anni, di spagnola. La banda Apollinaire ha un precedente, nella traduzione e nel commento de Gli amori di Apollinaire che lo stesso Paris approntò per un volume ronsardiano degli Oscar Mondadori, dove si seguivano gli amori apollinairiani attraverso le poesie, le prose ma anche ritratti e foto. Gli amicinemici della banda, che fu chiamata all’inizio “banda di Picasso” e che a ben vedere e non solo per l’invenzione del manifesto del Cubismo, era anche e forse di più di Apollinaire, pur stimandosi, a volte apparivano l’un contro l’altro armati. Basti pensare all’episodio del ratto della “Gioconda” al Louvre, quando Apollinaire finì una settimana in galera e Picasso, chiamato a riconoscerlo e a discolparlo, dichiarò di non averlo mai veduto né frequentato. Possiamo aggiungere i micidiali risentimenti di Max Jacob che si vide scippare da quel poeta meteco l’aureola del primo dei poeti dell’Esprit Nouveau. Il romanzo dove Guillaume raccontò la sua banda, con al centro Picasso travestito da dissoluto principe romeno, si chiamava Le undicimila verghe: qui compare anche sua madre, insieme a una coppia di poeti simbolisti e ai suoi eterni amici-nemici. E che dire poi della cucina apollinairiana, con i ravioli in testa, dei ristoranti, comprese le care pasticcerie dell’amata Parigi, tra Montmartre e Montparnasse che Paris passa in rassegna come se i versi del poeta nascessero anche dalla cultura materiale. Di quel continuo bordeggiare il mondo della malavita parigina, sia pure per fini artistici, e tutte quelle splendide ragazze che incontrava nelle notti ebbre di gin, dal “buchino niente caro” come la Mirely di un suo romanzo erotico. Tutto questo si ritrova ne La banda Apollinaire, compresa la malinconia e lo stile tachicardico di un autore definito “il padre dell’autofiction”, da Cani sciolti a La vita personale.
dalla bandella di Lalanne
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